Durante uno dei rari squarci di azzurro, Madre de Dios appare in tutta la sua pallida bellezza
Partecipo ad una nuova spedizione scientifica, sempre più vicina alla “fin del Mundo”: mi imbarco infatti da Punta Arenas, lungo la costa della punta più meridionale della Patagonia cilena, con destinazione la sperduta e disabitata Isla Madre de Dios, nella provincia di Última Esperanza; due nomi che incutono una certa riverenza. La caratteristica principale dell’isola, oltre al fatto di trovarsi in una zona piuttosto remota e sconosciuta, è quella di essere completamente costituita di bianco carbonato di calcio, in contrapposizione alla scura andesite (ricca di silicati) tipica della cordigliera andina, da cui l’isola è circondata. Obiettivo di questa campagna oceanografica è quindi studiare l’isola sotto numerosi aspetti: oceanografici, metereologici, geologici, botanici, e zoologici. Il mio compito sarà legato a quest’ultima parte, iniziando una caratterizzazione in immersione delle comunità bentoniche che ne popolano i fondali.
Un maestoso albatros Thalassarche melanophris volteggia nella tempesta
GIORNO 2
La nave, su cui saliamo in 18 ricercatori provenienti da 5 paesi differenti, è bella e calda, anche se stipata di personale ed attrezzature, e per il primo giorno si naviga ininterrottamente verso nord, prevalentemente all’interno degli stretti canali naturali tipici della Patagonia.
L’alba del secondo giorno è fredda e cupa; man mano che il tempo passa, la temperatura diventa sempre più bassa, il vento più teso e il mare mosso: stare all’aperto diventa difficile, anche se il paesaggio desolato, il lontano spruzzo di balene australi, ed il volo elegante di qualche maestoso albatros solitario (Thalassarche melanophris), spingono a rimanere sul ponte il più possibile. E poi, iniziano i campionamenti lungo la rotta, e alcuni strumenti vengono messi in acqua.
Le pareti ed il fondo del Seno Soplador sono completamente tappezzate da anemoni Metridium cfr. senile
GIORNO 3
Dopo quasi 60 ore di navigazione ininterrotta, e purtroppo non sempre tranquilla, arriviamo finalmente alla meta, la remotissima “Isla Madre de Dios”, e lo spettacolo è superbo: le scure rocce andine lasciano spazio a spettrali costoni calcarei, solcati da una miriade di graffi profondi lasciati dalle piogge, che in questa zona possono superare i 9 metri all’anno!
Subito saliamo sul gommone e ci dirigiamo verso il primo punto di immersione, all’imboccatura di uno dei numerosi canali che frastagliano la costa dell’isola, il Seno Soplador; l’acqua è piuttosto fredda (da 3 a 6 °C) e come prevedibile dal nome della località la corrente è fortissima, al punto che fare fotografie e campionamenti è quasi impossibile, davvero un fiume in piena.
L’ambiente però è straordinario: fondo e pareti del canale sono completamente tappezzati di anemoni Metridium cfr. senile, senza che un solo centimetro rimanga scoperto. In questa ricchezza, si muovono decine di invisibili granchi decoratori, variamente coperti di organismi prelevati dal fondale, e spiccano fitte foreste di gorgonie a frusta Primnoella chilensis; normalmente dritte come fusi, in questa corrente mostrano tutta la flessibilità dei loro scheletri!
Un giovane ed indagatore maschio di otaria Arctophoca australis
GIORNO 4
Alcune delle immersioni seguenti presentano un ambiente a me più familiare, essendo nel complesso piuttosto simile a quello dei fiordi Puyuhuapi e Jacaf, su cui si sono concentrati diversi studi in questi ultimi anni. Una importante differenza è data dalla presenza qui di poco estese ma estremamente dense foreste di kelp, alghe brune alte diversi metri, che costituiscono un ecosistema a sé stante.
Tra gli abitanti di queste foreste sommerse spiccano le otarie Arctophoca australis, alcune delle quali ci si avvicinano curiose e inquisitorie. Una in particolare, piuttosto nervosa, ha continuato a disturbare il mio lavoro girandomi intorno con guizzi rapidi ed improvvisi, e perfino urtandomi le pinne.
Splendide colonie dell’idrocorallo Errina antarctica si ergono dal fondale grazie allo scheletro calcificato, e vengono utilizzate dalle stelle gorgone Gorgonocephalus chilensis per avere un migliore accesso alle correnti
GIORNO 5
I campionamenti di oggi, lungo alcune delle impressionanti pareti rocciose verticali che caratterizzano buona parte delle coste patagoniche, mi hanno permesso di osservare da vicino una specie estremamente interessante: Errina antarctica. Si tratta di un idrocorallo, ossia un idrozoo in grado di secernere uno scheletro carbonatico simile a quello delle madrepore, diffuso solo lungo la porzione più meridionale del continente sudamericano e nella regione subantartica.
Costituisce colonie che, pur crescendo molto lentamente, possono superare i 40 cm di altezza, e sono caratterizzate da un bel colore rosso-rosato, con apici bianchi; si trova generalmente a profondità relativamente elevate, con la segnalazione più profonda a 771 metri, e può talvolta formare dei veri e propri reef, simili a quelli superficiali tropicali o a quelli profondi mediterranei e nordeuropei.
Nel canale che abbiamo esplorato oggi, abbiamo potuto incontrare diverse colonie di taglia decisamente rilevante che, pur non così dense da formare un habitat, ospitavano una fauna associata piuttosto precisa. In particolare, molte colonie offrivano un punto di ancoraggio alla bellissima stella canestro cilena Gorgonocephalus chilensis, che sfrutta il robusto scheletro dell’idrocorallo per avere un migliore accesso alla corrente.
Enormi anemoni Actinostola chilensis tappezzano alcune aree del fondale al di sotto dei 30 metri di profondità
GIORNO 6
Ultima immersione prima di voltare la prua verso la terraferma, che si rivela davvero molto bella: abbiamo esplorato una parete verticale, intervallata da spiazzi detritici e sormontata da una foresta di kelp con fronde enormi. In profondità, bellissime e gigantesche colonie di Errina antarctica, spesso colonizzate da stelle canestro, e degli enormi anemoni della specie Actinostola chilensis, di un arancio così vivo da sembrare quasi brillare di luce propria nella poca luce del fiordo.
Al di sotto del fronte del ghiacciaio, il granchio Lithodes santolla, già di per sé piuttosto cospicuo, raggiunge dimensioni davvero impressionanti
GIORNO 7
Siamo sulla via del ritorno; tre giorni di navigazione verso Punta Arenas. Durante il tragitto facciamo tappa all’interno di uno stretto canale, il Seno Ballena, per immergerci alla base dell’immenso ghiacciaio di Santa Ines, che arriva a lambire la superficie del mare. Uno spettacolo impressionante, sia alla vista che all’udito, per via degli scricchiolii e degli improvvisi botti con cui il ghiaccio si assesta o con cui si staccano enormi lastroni, che ci divertiamo a scalare. Non vedo l’ora di immergermi, curioso di cosa possa vivere in questa zona.
La parete che esploriamo, a poca distanza dal fronte del ghiacciaio, è ricchissima di vita, e diversa da ciò che abbiamo visto finora: tutta la roccia è tappezzata di animali, e a farla da padrone sono soprattutto grossi balani Balanus laevis, che arrivano perfino oltre i 30 metri di profondità. E forse ciò che più mi impressiona è proprio la taglia esagerata di molte specie: i balani stessi, ma anche policheti tubicoli, brachiopodi, ascidie e granchi, come le abbondantissime centolla Lithodes santolla, già viste in precedenza ma mai così grandi e numerose. Non ho resistito alla tentazione di un autoscatto, per far meglio comprendere le dimensioni di questi animali!
L’ultima sera una ventina di orche Orcinus orca ci hanno fatto visita, incuriosite dalla vista ella nostra imbarcazione
GIORNO 9
La campagna si chiude con l’osservazione serale di una ventina di orche, che erano già state individuate durante le nostre attività subacquee, anche se purtroppo noi che eravamo in acqua non siamo riuscite a vederle. Lasciamo così il ghiacciaio e mentre ci avviciniamo a Punta Arenas iniziamo ad impacchettare tutti gli strumenti e le attrezzature: si conclude così la campagna scientifica organizzata da CIEP e Centro IDEAL a Madre de Dios, nel sud della Patagonia cilena, una campagna ben organizzata, estremamente interessante da diversi punti di vista.
Sicuramente un’esperienza impegnativa (per quel che mi riguarda, soprattutto per via delle tempeste invernali del Pacifico Australe, con onde di diversi metri che mi hanno messo k.o.) ma davvero incredibile dal punto di vista paesaggistico e soprattutto zoologico, con ambienti caratterizzati da specie endemiche della Patagonia o tipiche del continente antartico, e incontri con animali che conoscevo solo dai libri e mai avrei pensato di vedere e fotografare.
Ora non resta che elaborare i dati ottenuti, anche se certamente saranno necessarie altre campagne e numerose repliche, per poter raccontare nel dettaglio le comunità bentoniche di questa incredibile isola carbonatica, la remota e sconosciuta Isla Madre de Dios.