Ho avuto finora la fortuna di potermi immergere in tanti posti nel Mondo, anche se molti di più sono quelli che ancora non ho visitato; direi che bene o male mi sono piaciuti tutti, per un motivo o per un altro, e tutti mi hanno lasciato contemporaneamente soddisfatto e con la voglia di rimanere ancora un po’, o tornare in seguito, per continuare a fare nuovi incontri e scoperte. Ma il posto che ogni volta diventa sempre più difficile abbandonare, quello che più lascio e più mi richiama a sé, è probabilmente lo Stretto di Lembeh, in Indonesia.
Qui, le acque torbide ed i fondali di sabbia scura ospitano una ricchezza tale di animali strani, che ogni immersione è un continuo susseguirsi di incontri da lasciare a bocca aperta. Le guide poi sono eccezionali, specializzate nel ricercare organismi criptici, spesso minuscoli, che affiorano da ogni dove. Insomma, il posto in cui “nerd” come me, amanti di muck dive e bestie “strane”, possono sentirsi a casa.
Ecco quindi che il congresso mondiale di malacologia del 2016 tenutosi in Malesia, a cui ho presentato alcuni dati provenienti da Capo Noli, è diventato una scusa per una piccola scappatella, il mio ultimo (per ora, spero) passaggio in quel paese delle meraviglie.
Un inaspettato tappeto di grandi foraminiferi punteggia la sabbia nera di Lembeh
GIORNO 1
Appena scesi in acqua noto qualcosa che non avevo mai visto nelle mie precedenti escursioni in zona: dalla sabbia nera vulcanica spunta un tappeto di splendidi foraminiferi: con questo termine si indica un gruppo di protozoi, quindi organismi costituiti da una sola cellula, in grado di costruirsi una sorta di esoscheletro di carbonato di calcio.
Molte specie sono comuni nei sedimenti, ma come è facile intuire le dimensioni sono spesso microscopiche; esistono però poche specie in grado di raggiungere taglie tali da poter essere agevolmente osservate ad occhio nudo: questa esplosione demografica di enormi (per essere organismi unicellulari!) e meravigliosi foraminiferi mi giunge nuova, sarebbe bello capirne i motivi, ma ora mi accontento di scattare foto a più non posso, testimonianze di un evento decisamente raro!
Un’anguilla serpente Ophichthus altipennis si affaccia dalla propria tana, che abbandonerà solo con il favore delle tenebre
GIORNO 2
Le piane sabbiose sono come degli ampissimi campi di battaglia, privi di rifugi, i cui abitanti competono continuamente tra loro, per mangiare e non essere mangiati, in una eterna lotta per la sopravvivenza. A prima vista è difficile apprezzare queste interazioni, ma con un po’ di attenzione ecco comparire occhi in agguato, bocche camuffate, e, come in questa immagine, musi di anguille Ophichthus altipennis che fanno capolino dalla sabbia in attesa delle ore notturne, quando la caccia avrà inizio!
Un gamberetto Periclimenes brevicarpalis mostra in trasparenza un crostaceo isopode parassita della famiglia Bopyridae, e le uova prodotte dal parassita stesso
GIORNO 3
I parassiti hanno sempre esercitato un certo fascino nei miei confronti, per svariati motivi: spesso hanno anatomie estremamente modificate per adattarsi ad uno stile di vita così peculiare, presentano in genere cicli vitali molto complessi, talvolta strettamente legati a quelli dell’ospite, sono in grado di modificare la composizione delle comunità portando perfino a ripercussioni ecosistemiche e, dulcis in fundo, negli ultimi anni si stanno scoprendo sempre più casi di parassiti (platelminti, crostacei, funghi, …) in grado addirittura di condizionare le abitudini dell’ospite per farlo agire nella maniera più efficace per la sopravvivenza e la riproduzione del parassita stesso…brividi!
Attraverso il deformato carapace trasparente di questo gamberetto Periclimenes brevicarpalis, è possibile intravedere una massa di uova perlacee, e dietro di esse la coda dell’animale che le ha prodotte, un grosso isopode Bopyridae specializzato proprio nel parassitare la camera branchiale di altri crostacei!
Un granchio Dorippe frascone si protegge trasportando sul dorso un riccio Astropyga radiata
GIORNO 4
Il principale problema che devono affrontare gli animali che vivono in ambiente sabbioso è la mancanza di rifugi: come fare a gironzolare in cerca di cibo o di un partner non visti dai potenziali predatori? O come difendersi da eventuali attacchi? Il granchio Dorippe frascone ha risolto brillantemente il problema, portando con sé, ben saldo sull’ultimo paio di zampe rivolto verso il dorso, il grosso riccio velenoso Astropyga radiata, che lo nasconde e difende allo stesso tempo!
Un polichete del genere Hyalinoecia striscia portando con sé l’astuccio da lui prodotto in cui rifugiarsi in caso di pericolo
GIORNO 5
Nonostante la ricchezza di soggetti che Lembeh mi offre e che le guide prontamente mi mostrano, non resisto alla tentazione di rimestare nella sabbia con il mio stick, e la mia testardaggine viene premiata con un incontro con un altro animale che conoscevo solo dalla letteratura: un verme polichete del genere Hyalinoecia, ossia, testualmente, “teca trasparente”.
E in effetti questo piccolo verme, di pochi centimetri di lunghezza, striscia nel sedimento trascinando faticosamente con sé un sottile tubicino trasparente, costituito di chitina, all’interno del quale si rifugia prontamente se minacciato. Incredibilmente, è anche in grado di girarsi su sé stesso in così poco spazio e sbucare dall’estremità opposta del suo piccolo rifugio.
Il grande nudibranco Phyllodesmium longicirrum incorpora tramite la dieta alghe simbionti, che rimangono attive nei propri tessuti
GIORNO 6
Molti nudibranchi sono in grado di nutrirsi di cnidari (soprattutto idrozoi), e stivare nel proprio corpo le nematocisti, organelli urticanti tipici del Phylum (quelli che ci pungono in caso di contatto con una medusa, ad esempio), da riutilizzare a propria difesa.
Alcune specie si nutrono di cnidari poco tossici, come molti ottocoralli, le cui nematocisti risulterebbero difese poco efficaci; in compenso, sono in grado di mantenere attive nei propri tessuti le zooxanthelle, microalghe simbionti di molti cnidari, in modo da usufruire degli zuccheri prodotti per fotosintesi dalle alghe stesse e rilasciati direttamente nello stomaco del nudibranco, che diventa a tutti gli effetti una “lumaca ad energia solare”! Uno degli esempi più belli è costituito dal grande nudibranco Phyllodesmium longicirrum!
Lo straordinario Sulu velvetfish, Paraploactis obbesi, si camuffa alla perfezione con l’ambiente circostante
GIORNO 7
Capita spesso che le guide chiedano ai clienti di stilare una “wish list”, una lista dei desideri che elenchi gli animali che più si vorrebbe incontrare. Per me è sempre un compito difficile fare una selezione, e questa volta ho pensato bene di inserire in lista il raro Sulu velvetfish, Paraploactis obbesi. Idea quantomeno originale, visto che le guide hanno convenuto che a loro memoria nessuno abbia mai fatto la stessa richiesta.
E in effetti è comprensibile: i Sulu velvetfish sono pesci dal capo analogo a quello degli scorfani (la famiglia Aploactinide, a cui appartengono, è compresa nell’ordine Scorpaeniformes), e il corpo simile ad un grosso wurstel ricoperto di muffetta pelosa e grigiastra; non un bel vedere insomma!
Ciò che personalmente trovo davvero affascinante, però, è che tra i tanti pesci non particolarmente abili nel nuoto diffusi in tutti i mari del mondo, secondo me i velvetfish brillano come i più inetti: si limitano ad ondeggiare e barcollare sulle pinne pettorali trascinando lentamente il corpo sul fondale, e sono completamente incapaci di alzarsi nella colonna d’acqua. Insomma, incontrare il pesce più incapace di nuotare di tutti mi sembrava interessante!
Un bobbit worm, Eunice aphroditois, come in un film dell’orrore spunta dalla sabbia dalle ore notturne, pronto a ghermire prede di passaggio con una forza ed una rapidità inaudita
GIORNO 8
In questo blog cerco di parlare di animali che altrimenti difficilmente giungerebbero alle luci della ribalta, evitando quindi quelle specie che, pur molto interessanti dal punto di vista zoologico o etologico, sono già sufficientemente note e “chiacchierate”. Non posso però resistere alla tentazione di puntare per un attimo i riflettori sul bobbit worm, Eunice aphroditois, ben noto in virtù dell’aspetto terrifico: un vermone lungo oltre due metri, armato di enormi mascelle simili a tagliole (o a forbici, ricordate il caso di Lorena Bobbit?), che spunta inquisitorio dalla sabbia durante le ore notturne: un animale che sembra uscito da un cliché di un film dell’orrore!
Come se non bastasse, si nutre prevalentemente di piccoli pesci, che cattura con insospettata velocità e con una tale potenza nel morso che talvolta le prede vengono tranciate in due. Quando ciò non accade, il bobbit worm le trascina rapido sotto la sabbia, per poi poter consumare agevolmente il proprio pasto. In tutto questo, ciò che più mi colpisce è il suo nome scientifico, che unisce nientepopodimeno che i nomi di una splendida ninfa e di Afrodite, dea greca della bellezza…una dimostrazione che in mare anche i vermi sono belli, soprattutto agli occhi degli zoologi!
Il momento dello spawning, il rilascio di gameti maschili, da parte del riccio Astropyga radiata
GIORNO 9
Gli ultimi minuti di immersione a Lembeh mi permettono di assistere ad un evento decisamente intrigante: diversi esemplari del bel riccio Astopyga radiata, raggruppati a pochi metri di profondità, hanno simultaneamente iniziato a rilasciare i propri spermi nella colonna d’acqua, dai 5 gonopori disposti all’apice del corpo, intorno all’ano.
I ricci, infatti, sono animali a sessi separati, e si riproducono tramite fecondazione esterna: sia le uova che gli spermi vengono rilasciati nell’ambiente, dove avviene la fecondazione, da cui si svilupperà una larva, detta pluteo, che farà parte del plancton per un po’ prima di scendere sul fondo e metamorfosare in un piccolo riccio. Scatto le ultime foto del viaggio, e come sempre mi riprometto di tornare prima possibile…